Viene fatto, quando si parla di un artista, di cercare il padre o i padri che hanno ispirato e influenzato la sua opera. Nel caso di Donato Di Zio è forse la matrice surreale di Hans Arp e di Joan Miró che lui ha guardato con gli occhi privi di malizia, ma colmi di amore per l’armonia delle forme che questi due grandi artisti hanno ricercato per tutta la loro vita? Personalmente penso proprio che sia così.
Osservando i disegni intitolati Figure eseguiti dal 1985 fino a oggi, si nota che da un’immagine disegnata in libertà, come se fosse una scrittura automatica, nasce lentamente una presa di coscienza più elaborata (riportata spesso anche in incisione con variazioni di carte colorate), con i contorni più definiti tesi nella ricerca dei pieni e dei vuoti. Altre volte gli spazi sono riempiti da elementi primordiali che fluttuano nello spazio quasi a dare all’osservatore una sensazione di un movimento ipnotico che richiama vagamente certe illusioni dell’optical art, come nel caso dei disegni e delle acqueforti contrassegnate col titolo Pelago. Qui il pelago diventa un liquido mosso da infinite presenze: amebe e microrganismi che animano lo spazio con il senso del loro movimento.
Pur considerando tutto questo, Di Zio è un artista singolare, sicuramente un unicum nel suo genere, che non ha eguali, applica i suoi lavori a varie forme d’arte: disegno, pittura, incisione, ceramica, senza che nessuna di queste espressioni perda di contenuto, come spesso avviene in altri casi.
Recentemente le sue composizioni hanno trovato una loro giustificazione in piatti di porcellana, opere uniche. Più esemplari presentano delle rotture che sono state accuratamente riparate. Viene da chiedersi se questo sia dovuto al caso oppure sia un gesto voluto. Opterei per la seconda ipotesi, ipotesi che aprirebbe a un concetto diverso, cioè che il perfezionismo di Donato possa subire anche dei turbamenti, una sorta di rottura con il passato per rinascere anche attraverso una gestualità più umorale, per poi ricomporla in un momento di riflessione. Quindi non più oggetti di consumo quotidiano, come lo sono le tazzine da caffè, ma opere d’arte uniche, reperti di un’archeologia contemporanea della quale si sente un fascino tangibile.