In occasione dell’apertura della grande antologica dedicata alla poliedrica attività di Donato Di Zio, presentata nelle due sedi dell’ex Aurum di Pescara prima (dove erano esposte oltre duecento opere dal 1995 a oggi) e di Palazzo Strozzi a Firenze poi, abbiamo incontrato il professor Gillo Dorfles, curatore della mostra, che da anni segue con passione il lavoro di questo giovane artista la cui ricerca spazia, sempre con coerenza, tra la pittura, il design, la grafica, il teatro e interventi progettuali su scala urbana.
MATTEO GALBIATI -
Quando ha conosciuto e incontrato il lavoro di Donato Di Zio cosa l’ha colpita della sua ricerca?
GILLO DORFLES - Sono ormai alcuni anni che sono venuto a conoscenza dei suoi lavori. Mi hanno subito interessato perché li trovo fuori dall’ordinario, sono molto originali. Da quel momento li seguo con molto interesse.
La mostra si presenta come una grande antologica che ricostruisce l’intero percorso di Di Zio sino a oggi. Quali sono i suoi contenuti in relazione alla scelta delle opere presentate?
È un’antologica, ma di qualità e di tipologia unica: la particolarità del lavoro di Di Zio è il segno da lui creato con molta originalità, che viene ripetuto sia nei quadri, sia nelle tazzine, sia nelle decorazioni. Quello che conta, quindi, è soprattutto l’unicità e la peculiarità con cui ha affrontato questa forma di creazione segnica.
L’elemento che ha messo in evidenza anche nel suo testo critico è proprio il segno: quali caratteristiche ha questo segno tanto particolare?
La principale caratteristica è di essere tecnicamente molto interessante perché ha una precisione e una sottigliezza straordinarie. Poi anche perché Di Zio ha la possibilità di arrivare alla creazione, attraverso questo segno, di forme particolari che finiscono col generare elementi che potrebbero dirsi veri e propri personaggi. Pur essendo opere nate come decisamente non figurative, finiscono col diventare una figurazione.
In questo senso, parlando del segno, lei pone un accento importante nel riferirsi alla sua organicità, quasi diventasse materia vitale e vivente?
Sì, molte di queste opere hanno una caratteristica organica e per questo finiscono col diventare simili alla natura: guardano al mondo vegetale, a quello animale, e possiamo anche pensare ad alcune forme biologiche del corpo umano. In altre parole, Di Zio ha realizzato un suo modulo che ripete e con il quale può fare qualsiasi cosa, qualsiasi oggetto, sia decorativo che plastico.
Un altro spunto affascinante della lettura che lei ha fatto del lavoro di Di Zio guarda all’approccio psicologico di questo segno – mi riferisco ad esempio al test di Rorschach –: come si legge, come si interpreta la dimensione interiore di questa ricerca?
Naturalmente non si può fare un’analisi clinica della sua personalità. Di sicuro, però, questa attività segnica rivela una caratterialità dagli aspetti molto particolari, con interessanti chiaroscuri, con una qualità di introspezione e, in un certo senso, con una forma notevole di iterazione. La personalità dell’artista è indiscutibilmente singolare. Non ha niente di banale.
Come può nascere una relazione tra l’opera e chi la osserva?
Naturalmente l’opera può venire interpretata a seconda da chi la guarda: queste opere, a parte la loro suggestione e la loro piacevolezza, possono anche far pensare a qualcosa di più profondo e non superficiale. Per questo credo che possano suscitare molto interesse anche in un pubblico non esperto.
È stato fatto anche un paragone tra il lavoro di Di Zio e quello di Escher: cosa ne pensa?
Sì, c’è una qualche analogia, però non direi che sia molto rilevante: Escher è più decorativo, mentre in Di Zio prevale l’elemento introspettivo.
Resta, all’interno di questo segno così vivo, qualcosa di non completamente rivelato?
Beh, qui andiamo in quella solita psicoanalisi che è una cosa che io trovo detestabile, di applicarla alla critica d’arte. Sarebbe molto facile un’analisi psicoanalitica, ma, ovviamente, sarebbe completamente balorda a proposito di queste opere. È indubbio che nel temperamento dell’autore ci siano degli elementi rimossi che hanno la loro importanza.
Ritornando alla completezza della mostra, che offre allo spettatore non solo opere pittoriche ma anche lavori legati, ad esempio, al teatro e al design, questa diversificazione di ambienti, linguaggi e realizzazioni dove trova un punto di contatto, una sua coerenza?
Non trovo ci sia tutta questa diversità ambientale: il fatto che Di Zio si occupi molto di teatro e di design non ha alcuna importanza; quello che conta è l’applicazione del suo modulo particolare all’uno o all’altro ambito. Lui può fare allestimenti teatrali come tazzine rimanendo sempre originale. Naturalmente, a seconda del caso, la cosa si adatterà meglio o peggio rispetto alle singole circostanze.
Come inserisce la ricerca di Di Zio all’interno dell’arte contemporanea? Penso a quella giovane e più attuale…
A questo è difficile rispondere… Per sua fortuna non segue correnti precise: non ha fatto dell’arte pop, dell’arte povera o della transavanguardia. Rimane molto personale. Nel panorama attuale dell’arte rappresenta indiscutibilmente un caso a sé stante.
Vorrei farle un’ultima domanda, non posta al critico ma all’artista. Quali sono i punti di contatto che trova o potrebbe avere la ricerca di Di Zio con la sua?
Di cose personali non posso parlare neppure a livello artistico. Alcuni hanno detto, vedendo i quadri di Di Zio, che ricordano certe forme dei miei dipinti o disegni…La cosa mi farebbe molto piacere perché vorrebbe dire che ho creato una scuola, anche se mi pare non sia un qualcosa di sottoscrivibile.